Linee s(n)aturanti : Inu/m) azion i sospese
"...Et propter vitam, vivendi perdere causam"
Al limite, l'accesso ci riguarda.
Sulla soglia dell'accesso, consunto in un'urgenza indecidibile, in tralice a sollecitare un appello mancato, il vuoto che apre all'assenza di passaggio è la condizione di ogni accedere: il limite che ci riguarda. Limiti in cui fissare il vuoto, sempre pronto ad estendersi per un nonnulla in quella tana incustodibile che chiude ogni varco per ampliare molteplicità inaudite, linee che disattendono la tra(s)duzione del percorso, concatenamenti fàtici che deformano l'energia nel corso della prova intrecciando pruriginosi nel pluriverso orde di alleanze in cui alterni processi transindividuanti l' hom ( uncul ) us (un cipiglio mo(n)struoso, kafkiano) metastabile in(ter)ferisce e attraversa -altre fasi dell'individuazione a colmare impossibili.
La nozione di limite, scrive Deleuze, non designa i confini della rappresentazione finita, ma al contrario la matrice entro cui la determinazione finita non cessa di scomparire e di rinascere, di invilupparsi e di svolgersi in una rappresentazione orgiaca; non la limitazione di una forma ma la convergenza verso un fondamento; non la distinzione delle forme ma la correlazione del fondato col fondamento; non l'arresto della potenza ma l'elemento nel quale la potenza è attuata e fondata.
Il letargo è una condizione limitrofa, che nel limite fonda il nutrimento da e in cui scomparire e rinascere. Il letargo sta nel limite, si nutre, lentamente, del proprio limite, corpo che si atrofizza in una posizione scorrevole, posizionato dal suo stesso impedimento -l'inaffrontabile condizione climaterica, in una autofagia puntuale e stratificata, predeterminata.
Il letargo (non come luogo ma come non-luogo inabitabile, invivibile) in ultima istanza tentazione silenziosa per una chiamata inavvocabile, fa cesura con l'esterno annullando ogni presa sul reale, ogni visita di e da, ingenerando uno stato d'intorpidimento inospitale in cui "rimandare a più tardi" (estrema malleabilità del verbo francese demeurer, ci si trova con Derrida), rinviare ogni occupazione sulla vita, portando così quest'ultima ad un termine differito da osservare con una certa distanza, spingendo là dove l'autoemarginazione interroga la propria sopravvivenza. Il letargo rimarca la differenza implicata nello sguardo che porta la morte in bocca, la porta alla bocca, la fa ingoiare senza poterla digerire, comprendere o accettare. L'inu/mazione sospesa come ricerca dell'altro riempie lo sguardo liminare e fecondo dell'accesso all'altro lasciandolo al buio, in compagnia di decuplicanti fantasmi. L'immobilità e il quiescente distaccamento sembrano vanificare ogni sforzo che -colto nell'incapacità di af/fermare il processo irreversibile, consuma ogni spettro d'esistenza, ogni espresso che interpella l'esperienza.
Il letargo come situazione-limite in cui raccogliere tracce, zuccheri-grassi-energie sudate in quiescente dimorare che segnano nuovi interstizi e ampliano i preesistenti in uno scambio tellurico impercettibile, creando un ritmo attraverso il mezzo che esautora, che espelle se stesso assentandosi da sé.
Interstiziale labirintico disomogeneo, il gesto notturno (Blanchot) dell'artefice concreziona disgregando sul territorio un'ondulazione di frequenza che potenzia il passaggio serrato attraverso asterismi ecogeneranti, metastratificazioni, alloplastiche manualità distinte a informare il luogo in cui nuovi orizzonti, nuove geografie -tassonomie del paesare tramutate dal tentativo di giungere ad un centro che non c'è in quanto riempito , dal suo stesso ricercarsi-centro s(n)aturato, si agitano perplicanti lasciando scie d'assenza. L'esecuzione, tra un rallentamento nomade inoperoso e un'accelerazione d'intensità, afferma incrinandolo il flusso del divenire proprio all'evento, sfonda e fa saltare l'abituale coltivazione per interessare altri st(r)ati del percepire, altre strade del sentire, nuove interazioni ecologiche.
Fenditure come diaclasi si estendono sensibilmente, pieghe sinclinali e anticlinali fuoriescono dentrificandosi fino ad innestarsi nuovamente con cunicoli tunnel gallerie nel terreno circostante, faglie scaturiscono percolanti e circolanti dove improvvisati, costantemente in balìa ridefiniti.
Il letargo s'intesse, s'intrude in un orizzonte di depositi biologici, escrementi e ossa, un resto di cenere che è l'emblema della traccia, un già stato dato al fuoco che freddo ha in sé la potenza fertile del farsi traccia, come polvere innamorata (Machado). Una traccia di sospensione della traccia, un rinvio per attestare l'irriconciliabile e produrre senso, una sorta di " mise en demeure " dell'attendere stesso necessariamente pieno del suo farsi-ricettacolo. Onde at/tendersi oltre l'attesa, attraverso l'autofagia e il rallentamento delle funzioni bio-logiche, durante il letargo si espletano (dilatando e dilazionando il luogo zoe-logico) gli spostamenti ripetuti nel differimento della propria sopravvivenza, quasi un al di là dell'al di là della pulsione di morte, un istinto originario alla vita che attraverso fisiologici scambi non violenti con l'esterno inaugura un tempo invisibile.
Il fuoco del significato cova sempre sotto la cenere delle parole; i passaggi muti o enigmatici diventano palpitanti e sono resi alla vita stessa , Levinas. Il gesto dell'inu/mazione è sospeso, separato tra i resti come escremento del prodursi transindividuale implicato nell'evento. Qui la contemplazione predispone, è funzionale: al di là della forma ontologicamente impropria essa si orienta nel vuoto per intuire un tempo incominciante, manifestando quindi che non le funzioni creano l'organo ma le variabili, le virtualità implicate nell'organo sono a permettere le molteplici (dis)funzioni.
La sovrasaturazione, parafrasando Simondon, è la tensione necessaria in cui s'innescano le trasformazioni allagmatiche, milieu nel quale l'intenso orizzonte del mutamento converge configurando il transitorio, la disparità propria dell'individuazione.
La "...cappelletta(?)" così s(n)aturata, rielaborata, si trasforma in qualcosa dell'altro, un'ecosofia polisemica che contamina implodendo miliardi di processi fertili, polvere verso cui la carne tende con fedeltà nietzscheana mentre lo sradicamento orgiaco guarda senza vedere attraverso il buio accecante un al di là mistico, mancante, potenzialmente pericol(oso-ante). Disseminando movimenti esplicitamente oscuri che restituiscono in percezione l'Idea nel regno caotico dell'individuazione , popolando così il letargo di tutte le interrogazioni proprie del da-venire, la ricerca agisce con religiosa e rigorosa dedizione verso i fondi senza fondo del fondamento.
Ancorata al gio g o della sommità, la croce fluttua tra deterritorializzazioni e riduzioni, contrazioni e ritterritorializzazioni, longitudini e latitudini di senso che debordano nell'appercezione dell'incontrollabile.
Prendendoci cura dell'humus fragile indeterminante in cui si decostruisce ogni vita/morte, ten(d)endo una mano al silenzio per acconsentire al luogo incollocabile la cui mancanza d'accesso chiamiamo vita, trascorriamo senza scorgerci nei terreni interdetti sulla soglia dell'accesso.
Al limite, ci si at/tende.
Benjamin Ibry